Il tubo di Kubrick

Esiste un male per il quale, ad oggi, la letteratura medica non annovera capacità terapeutiche risolutive: il severo - e dannatamente crescente - processo di assuefazione alla bassa qualità che affligge il nostro pubblico e il nostro tempo dinnanzi al totale decadimento dei princìpi sui quali dovrebbe potersi fondare una costruzione o realizzazione definibili come tali.
Questa stessa, sebbene culturalmente eterogenea, platea contemporanea ha talmente ridotto all'osso le proprie aspettative da percepire un certo coefficiente di fascinosa qualità persino laddove carente o assente; persino laddove un oggetto/soggetto non risponda lontanamente (o risponda timidamente) a quei parametri, a quelle sane convenzioni che lo facciano rientrare in quel dignitoso range di apprezzabilità estetico-funzionale da renderlo sempre valido, riconoscibile nel tempo.
Eppure applaude.
Applaude a quel nulla intriso di nulla.
    
Errori e orrori
La rinuncia a esigere processi vincenti, così come la rinuncia all'eccellenza e alla piena soddisfazione in materia di viaggi interattivi, di orientamento tra vicoli cittadini o di reperibilità in labirintici reparti ospedalieri, ha drammaticamente spianato la strada al progettista distratto, alimentandone la distintiva pigrizia.
Sovente, progettista e utente, non avvertono minimamente la mutua necessità di uno scenario alternativo/ migliorativo poiché lo status quo appare come la sola via percorribile.
La somma delle considerazioni del mittente ("credo che tu attenda il minimo da me") e del destinatario ("credo tu possa offrirmi quel minimo e basta") restituisce come risultato il minimo sindacale che ci possa attendere da un sistema o da qualsivoglia sedicente professionista.
 
Si delinea in sostanza una duplice, viziosa dinamica:  

- da un lato l'ideatore che, impegnato a promuovere un evidente abbandono di tutte quelle fatiche mentali-progettuali-ideative volte ad agevolare ogni tipo di esperienza tra soggetto e servizio, incoraggia spasmodicamente e vivacemente la diffusione di prototipi (di discutibile qualità) pronti all'uso, alla vendita e al riuso, frettolosamente preconfezionati da servizi terzi. Egli concorre attivamente alla produzione in serie tipica di una nuova fabbrica degli orrori: la fabbrica delle interfacce;

- dall'altro il consumatore/spettatore sempre più sciatto, annoiato, avvezzo a visual scadenti e stanco di segnalare disservizi o défaillance grafiche (qualora possieda il dono di riconoscerle come tali, si intenda) oppure del tutto ignaro di esser stato privato di quel rispetto formale e comunicativo di cui il mittente avrebbe il dovere d'essere autorevole dispensatore e divulgatore.
   
Ma non finisce qui. È urgente denunciare l'ulteriore disagio legato a un certo pudore - tipico del cliente - nell'ammettere una verità sconvolgente: la mancata comprensione del messaggio o del contesto in cui si ritrovi in qualche misura a interagire, non solo nelle vesti di mero consultatore, ma spesso come attore protagonista del percorso interattivo. Egli preferisce tacere ogni sconcerto, ogni disappunto, risparmiandosi persino di storcere il naso pur di non arrossire o farsi additare come "colui che non capisce un tubo", quasi fosse la minaccia di una remota diagnosi di ritardo mentale. 

Un duro colpo da infliggere alla propria autostima, non credete?
    
Esternazioni lamentose alla stregua di "A dire il vero ancora non capisco come funzioni o cosa significhi questa cosa. Me la puoi rispiegare?" e ancora ... "Potresti rivisitarla o rifarla meglio affinché tutti, ma proprio tutti, possano capirla?" costituirebbero pura utopia poiché ci proietterebbero in una dimensione nuova, governata dalla schiettezza assoluta e che - sebbene imbarazzante - si rivelerebbe terapeutica per tutti gli attori coinvolti in un efficace processo comunicativo (o aspirante tale).
Ma si tratta di un sistema timorato di evolvere favorevolmente, timorato di trionfare sull'approssimazione e abbandonare quella tanto rassicurante zona di comfort.
   
E la storia continua ...
Cosa fa un lettore, un navigante, uno spettatore quando non capisce (a parte celare le rosse gote semmai deciso a esternare il proprio sconcerto cognitivo)? Troppo spesso egli rettifica, assolve l'errore, nella misura in cui quel tubo di Kubrick nato per errore/orrore di stesura, rimanda - per mano di una salvifica assonanza abbinata a un basico repertorio culturale acquisito nel tempo - all'espressione invece corretta: il cubo di Rubik.
    
Il tubo di Kubrick è infatti la dimostrazione che:
-  la sostituzione di una o più consonanti (tubo anziché cubo, Kubrick anziché Rubik) può comunque rimandare, con la giusta intuizione, alla lettura e comprensione esatte del contesto;
-  la sostituzione di una o più consonanti è altresì sufficiente per generare un significato altro, nuovo.
    
Si tratta di concetti o definizioni mal esposte che, seppur non aderenti alla logica comune o alle convenzioni correnti, riescono tuttavia a esser captati inducendo il lettore ad applicare quel servomeccanismo compensativo-correttivo che riconduca in carreggiata ogni scivolone di trascrizione, di esposizione orale o elaborazione visiva.
Viene dunque e comunque rievocato il significato nativo, aderente all'intento originario di un'espressione d'uso comune.  
E il problema pare non sussistere poichè l'utente - nonostante tutto - "è riuscito a capire".
    
La medesima dinamica si configura puntualmente in ambito di quelle interfacce in cui - un mancato accorgimento, una omissione contenutistica, una parziale rappresentazione di indispensabili componenti di navigazione o traslazione degli stessi rispetto a una posizione congrua - costringono l'osservatore a una rielaborazione mentale. Tale rielaborazione potrà essere talvolta esigua come nel caso del nostro tubo-cubo/Kubrick-Rubik o talvolta drastica e dispendiosa in termini energetici qualora implichi uno struggimento estenuante, traducibile in un avvilente "Bah, ma forse voleva intendere questo ... Ma forse voleva dire quello ... Ma forse, se lo clicco, mi lascia approdare alla pagina X" ...e così via.
    
Il fenomeno si manifesta sia in interfacce digitali che cartacee dove spesso vengono meno alcune indispensabili regole di rappresentazione che caretterizzino quel dato elemento in modo da poter agevolmente distinguere - ad esempio - un semplice testo "in sola lettura" da un testo cliccabile o da un set di pulsanti navigabili che facciano accadere cose.
Al navigante, al consumatore non è dato interpretare, immaginare, rettificare, intendere: egli deve poter disporre di un codice universale e non di regole comunicative puramente inventate.
    
Un testo cliccabile, se privo di imprescindibile sottolineatura, potrà pur fungere da dispositivo scatenatore di eventi se opportunamente programmato e se sollecitato dal puntatore del mouse, ma se il ricevente non lo riconosce a monte come tale o lo riconosce solo in seguito a una fortuita intuizione scaturita da ripetuti tentativi grossolani, esso rivestirà il ruolo di una scatola vuota, da farcire con i più disparati (e disperati) significati. Per non parlare del gravoso inquinamento acustico procurato da un ossessivo susseguirsi di click, sintomatico del non averci capito un tubo!
     
Una celebre frase di Alda Merini recita:
La gente quando non capisce, inventa. E questo è molto pericoloso.

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