Alla faccia dell'interfaccia 2
Ricordate quando dicevo che, talvolta, autori e vittime di messaggi
fuorvianti siamo noi stessi utenti?
Se l'interazione utente-utente non viene condotta nel giusto modo, come nella caotica chat del mio precedente racconto "Io non vengo", può dar luogo a contenuti ambigui o difficili da consultare.
Se l'interazione utente-utente non viene condotta nel giusto modo, come nella caotica chat del mio precedente racconto "Io non vengo", può dar luogo a contenuti ambigui o difficili da consultare.
Restando sempre in tema di cattivo utilizzo dei dispositivi pubblici,
esiste un altro tipo di fenomeno - descritto nella storia che sto per
narrarvi - il cui protagonista è classificabile come interfaccia fisica: il cassonetto della spazzatura. Prima di proseguire nella lettura, tenete presente che:
- tutti i personaggi (me compreso) sono nel pieno possesso delle proprie facoltà intellettive e non sono affatto dei vandali;
- le ripercussioni negative sul decoro urbano non sono imputabili a
disservizi legati alla raccolta e smaltimento dei rifiuti da parte della
società preposta, ma solo ed esclusivamente all'errato comportamento
della gente.
Dio, che gente!
"No, non ci posso credere! Hanno svuotato ieri il cassonetto
della plastica ed ora è di nuovo pieno. E adesso come faccio? La butto
sul cumulo di rifiuti? O sul cumulo ci cammino sino a raggiungerne la
vetta sormontata dall'affollato buco dal quale fuoriescono, disposte a
raggiera, lattine ricurve avvinghiate a bottiglie di detersivo?
Chissà, forse premendo con tutta la forza che ho in corpo la
plastica si schiaccia facendosi via via meno ingombrante. Ma no, chi me
lo fa fare, sarà stracolmo. Se tutto è a terra va da sé che il
contenitore non possa più accogliere nemmeno un tappo. Getto il
sacchetto sulla montagna e fine della storia!"
“Ehi, signore! Guarda che è vuoto!” grida un ragazzino dall'altra parte della strada.
“Impossibile sia vuoto, guarda quanta roba c'è a terra! Cosa ti fa pensare sia vuoto?” replico io rivolgendomi a quella vocina senza volto.
“E a te cosa fa pensare che sia pieno?”
“Bè, io lo deduco. Così come una fila di gente davanti a un bagno pubblico lascia pensare sia occupato!”
“È qui che ti sbagli, sai? Magari il bagno è semplicemente chiuso
e la gente lo crede occupato. La gente è pigra, non bussa e si vergogna
ad aprir la porta. Dammi retta, prova e vedrai!” incalza il piccolo birbante.
Fiducioso in quel fare saccente e rassicurante, azzardo un'audace
arrampicata e spingo verso l'interno il materiale strabordante e...
puff, il tutto scende giù toccando il fondo, con tanto d'eco e di
rimbalzo.
Dunque, ricostruiamo i vari momenti della vicenda, evidentemente teatro di un colossale fraintendimento:
1) il cassonetto è vuoto;
2) un primo tizio vi getta il proprio sacchetto pieno di
cianfrusaglie senza curarsi che questo non resti, per qualche
ragionevole principio fisico, fermo in ingresso;
3) il sacchetto, come volevasi dimostrare, resta ancorato ai bordi del foro gommato;
4) altri utilizzatori - avvistando dei rifiuti a ridosso
dell'imboccatura - percepiscono il cassonetto come moderatamente pieno.
Per qualche motivo, questi utenti non saranno disposti a correre il
rischio di aprire il coperchio né di applicare una leggera pressione sui
sacchetti sporgenti [utile a farli precipitare all'interno del bidone e
creare un provvidenziale spazio] ma incastreranno la propria plastica
nel già sovraffollato buco o, nella peggiore delle ipotesi, la
getteranno direttamente a terra.
5) gli utenti che via via si susseguiranno, interpreteranno il
contenitore come chiaramente colmo, sebbene lo spazio disponibile tra i
rifiuti bloccati in ingresso e il fondo dell’apparato sia piuttosto
ampio. Epilogo della vicenda? Ovviamente nuovi rifiuti verranno gettati a
terra, a ripetizione, in un crescendo di drammaticità, finché la
montagna multicolore non apparirà abbastanza alta da destare sdegno e
malcontento popolare.
6) un tizio qualsiasi (eccomi) nota il cumulo di plastica disposto a
terra, maturando l'assoluta certezza che il cassonetto sia pieno. Ci
vorrà un ragazzino saggio a far la rivelazione del secolo: "pare pieno
ma molto probabilmente è vuoto! Spingi, scemo!"
Star fermi non è mai una buona mossa
L’inguaribile pigrizia del genere umano è quindi confermata dalla rinuncia a una banale operazione: informare il prossimo che il dispositivo è vuoto e in grado di ospitare agevolmente altre cose. Questa riluttanza - unita all'ottusa ma giustificabile credulità di
chi non si pone il dubbio che dietro un cassonetto apparentemente pieno
possano nascondersi risvolti differenti - genera cumuli di
incomprensioni. La montagna di malintesi si traduce in una montagna di
plastica sudicia, al cospetto di un contenitore quasi completamente
vuoto e di un viavai di soggetti asserviti alla bugiarda apparenza.
“Ma che vergogna! Che degrado! Saranno settimane che l'azienda dei rifiuti non passa a ritirare”, brontola un'anziana signora rivolgendosi all'amica.
“Macché, sono i clochard che buttano tutto fuori per cercare chissà cosa!” risponde nervosamente un passante infilando il proprio sacchetto nel mucchio.
[Nel mentre, il vento si porta via alcune bottiglie sparpagliandole
sulla strada principale, con le conseguenze che potete immaginare!]
L'idea che il cassonetto sia pieno non è quindi basata su un dato di fatto ma su una verità percepita,
capace di tramandarsi - come il testimone di una staffetta - da un
fruitore all'altro; un bizzarro fenomeno di suggestione collettiva la
cui vittima è l'utilizzatore stesso.
Ma cosa dissuade la gente dall’adottare una salvifica buona pratica
che possa arrestare un così tremendo circolo vizioso? È davvero
un'operazione così dispendiosa, in termini di risorse cognitive,
esercitare quel lieve colpetto sui rifiuti in ingresso? Non è più
difficile gridare all'orrore? Non credo questa passività origini dalla
sola inerzia, deve necessariamente innescarsi un automatismo dominato da
modelli mentali ben radicati nell'immaginario comune
(spazzatura esposta = bidone pieno zeppo), combinato a un certo grado di
apatia e rassegnazione; il soggetto di turno si ferma all’evidenza del
primo impatto giungendo a una conclusione immediata, quasi una sentenza
ineluttabile, immeritevole di qualsiasi sforzo investigativo.
La superficialità e l'assenza di pensiero laterale generano incuria e l'incuria genera nuova incuria.
Il fatto che il cassonetto non sia trasparente, rende impossibile
stabilire a monte quanti rifiuti stia contenendo ma è una ragione in più
per vagliare sempre due ipotesi:
a) rifiuti esposti = cassonetto realmente pieno;
b) rifiuti esposti = cassonetto apparentemente pieno ma vuoto o semi vuoto;
Tenendo conto che, in interazioni di questo tipo, più attori
concorrono alla costruzione dello scenario, l'intelligenza vorrebbe che,
nel dubbio:
- ci si prendesse sempre la briga di indirizzare i propri scarti in
profondità, o almeno di non lasciarli debordare quando lo spazio a
disposizione sia oggettivamente sufficiente;
- si mettesse in bilancio l'eventuale negligenza altrui, ovvero -
nell'incertezza che gli altri abbiano precedentemente fatto il proprio
dovere - provare sempre e comunque a spingere i rifiuti verso l'interno,
così da poter constatare [e, di conseguenza, suggerire ad altri] se il
dispositivo sia davvero pieno o vuoto. Non si tratta di un semplice atto
di civiltà, ma di un messaggio di cortesia utile a informare il mondo circa lo status in cui versa un determinato contesto, aggirando gli effetti di un clamoroso fraintendimento.
Pigrizia mentale e credulità basate su convenzioni
ed esperienze pregresse sono caratteristiche insite nell'individuo
sulle quali il design (industriale o digitale che sia) deve far leva per
poter progettare interazioni che funzionino.
Nell'ambito delle interfacce digitali, ad esempio, il designer adotterà dei pattern visivi
consolidati, di sempre univoca interpretazione; l'utente non va mai
messo nelle condizioni di dover cliccare su qualsiasi contenuto per
vedere se questo o quello "fungano o meno da pulsante", ma deve sentirsi
assolutamente sicuro - senza investigazione alcuna - dell'esito di ogni
interazione e della funzione che le cose hanno in virtù del loro
aspetto (affordance).
Il designer progetta in modo logico e scientifico ed è responsabile
di ogni impressione suscitata nell'utente; è lui stesso il
suggeritore/facilitatore che accorre e soccorre l'eroe (l'utente) in
ogni momento della storia attraverso contenuti "parlanti"; in altri
termini è un narratore onnisciente e coscienzioso che prevede, segnala o
inibisce ogni possibilità di errore.
Ad esempio, quando nel campo "numero di telefono" di un modulo online
digitiamo per sbaglio delle lettere anziché dei numeri, compare un
messaggio di errore che ne segnala l'accaduto riconducendoci sulla retta
via.
Ma se un buon designer progetta la segnalazione dell'errore, un designer eccellente rende quel campo a prova di errore
istruendolo, lato codice, ad accogliere solo ed esclusivamente
caratteri numerici; se digitassimo per sbaglio una lettera, non
riusciremmo a scrivere nulla poiché l'errore è stato prevenuto.
Trasponendo questo approccio all'ambito analogico - e, più
specificamente, al nostro racconto - è come se un progettista di
cassonetti fosse sempre lì a spinger sacchetti nel bidone per aggirare
il problema di interpretazioni sbagliate, scongiurando del tutto
l'errore (pratica risolutiva ma logisticamente improponibile!).
Se nel mondo digitale la gestione delle dinamiche utente-prodotto
sfrutta schemi visivi e principi psicologici ricorrenti, nel mondo
fisico - purtroppo - non sempre esistono soluzioni definitive e
comportamenti controllabili scientificamente; bisogna più che altro
affidarsi al buon senso e al senso civico della collettività e
adoperarci, tutti, affinché la comunicazione utente-utente sia sempre
immediata ed efficace [o, qualora non lo fosse, sperare in un
provvidenziale deus ex machina - il ragazzino audace - che avverte di un
cassonetto in realtà vuoto].
Potremo provare a spingere quell'agglomerato di plastica verso
l'interno per sondare se la presunta pienezza (outcome visivo) sia
sintomatica di sciatteria o frutto di un effettivo sovraccarico, ma non
riusciremo mai a disciplinare né a misurare del tutto l'altrui operato.
Se proprio volessimo indurre la gente a comportarsi in modo conforme allo status
in cui il cassonetto effettivamente versa, dovremmo affidarci a un
bravo industrial designer capace di progettare contenitori completamente
o parzialmente trasparenti, utili a mostrare la quantità di spazzatura
in essi contenuta. Una simile strategia di monitoraggio rappresenterebbe
il vincente adattamento dei princìpi cardine del design digitale
[trasparenza cognitiva] alle interfacce proprie del mondo fisico
[trasparenza materiale, in senso letterale] e arginerebbe
definitivamente comportamenti scaturiti da percezioni non corrispondenti
alla realtà.
Nel mondo digitale come nel mondo fisico, ogni occasione di
interazione uomo-contesto merita il medesimo rispetto ed è assimilabile a
una relazione sentimentale basata su:
- dialogo = comunicazione efficace e assidua tra utente e interfaccia;
- empatia = capacità di immedesimarsi nell'utente, alleviandone i grattacapi;
- fiducia = affidabilità e reattività del sistema;
- trasparenza = usabilità del sistema;
- interazione fluida e memorabile = connessione emotiva utente-sistema, desiderio di ripetere l'esperienza e di segnalarla ad altri.
Pertanto, poco importa si tratti di un volantino, di un presidio
medico, di un servizio pubblico, di un sistema digitale, del libretto di
istruzioni di una lavapiatti, di un cassonetto dell'immondizia ecc.,
l'abile progettista deve saper coniugare funzionalità, usabilità e profonda umanità,
contrastare l'inerzia stimolando all'azione (di qui la metafora del
bambino suggeritore), inibire gli errori di interazione/digitazione.
Avanguardia non è sovvertire il sistema ma renderlo - in tutti i sensi - semplicemente trasparente.
Fantastica... Peccato che l'Ama ha da poco cambiato il colore dei cassonetti mischiando ancor di più le idee ai poveri utenti :-(
RispondiEliminaCome se non bastasse!
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